Dedichiamo oggi lo spazio della Hall of Fame a Lucrezia Roda, classe 1992, ex allieva del Corso di foto, video e new media che attualmente vive fra Milano e Lugano, dove sta per inaugurare la sua prima mostra personale in Svizzera.
Lucrezia, come nasce il tuo interesse per la fotografia?
Fin da bambina mi è sempre piaciuto immortalare e custodire gelosamente i miei ricordi: gli affetti, la mia famiglia riunita per le grandi occasioni e i paesaggi che incontravo durante i miei viaggi. Finito il liceo classico ho deciso, quindi, di frequentare il corso biennale presso l’Istituto Italiano di Fotografia a Milano. Qui ho imparato le basi tecniche fondamentali, che mi hanno dato la possibilità di capire qual era il settore a me più affine. In quel periodo ero particolarmente appassionata all’autoritratto.
Successivamente, spinta dalla mia incessante voglia di imparare nuove nozioni, ho cercato un corso che potesse soddisfare le mie aspettative rispetto alla fotografia di scena. Roberto Mutti, mio insegnante all’IIF e anche il curatore della mia prima mostra personale, mi consigliò il Corso di foto, video e new media dell’Accademia Teatro alla Scala di Milano. Amavo il teatro e soprattutto il cinema, mi fidai del suo consiglio e partecipai alle selezioni.
Cosa ti affascina particolarmente di questa espressione artistica?
La fotografia è una forma d’arte che a primo impatto potrebbe essere intesa come un linguaggio che rispecchia fedelmente la realtà, anche se io l’ho sempre utilizzata interpretandola nella maniera opposta. Lavoro molto in post produzione e questo mi permette di trasmettere attraverso l’immagine una mia interpretazione personale della realtà. Il mio stile è nettamente cambiato nel tempo, soprattutto successivamente al periodo trascorso in Accademia.
Cosa ti porti a casa dell’esperienza vissuta in Accademia?
Scattare in teatro ti abitua a osservare attentamente, essere veloce per il repentino cambio di luci e accadimenti. Pensiamo, per esempio, a uno spettacolo di balletto: devi essere in grado saper cogliere il momento esatto della massima elevazione di un salto o la massima estensione di un braccio… all’inizio non è per niente facile.
Ho capito che esperienza e studio preliminare sono elementi imprescindibili per ottenere lo scatto perfetto. Inoltre ho imparato a lavorare nel buio, in silenzio, senza quasi far percepire la mia presenza mentre scattavo per non rompere quell’atmosfera quasi sacrale che si respira sia durante le prove sia in scena. A fine corso, dovendo costruire un portfolio di nostri lavori ottenuti durante le numerose esercitazioni pratiche previste, presentai una serie di scatti in bianco e nero dedicati al back-stage di alcuni spettacoli. Foto “rubate” quando avevamo la possibilità di andare dietro le quinte. Mi piace l’idea di mostrare qualcosa alla quale gli spettatori non sono abituati: ovvero la lunga preparazione che precede la messa in scena di un’opera. Scattare in teatro mi ha insegnato molto sia a livello umano che fotografico.
Com’è cambiato, oggi, il tuo stile?
Adesso ritraggo principalmente ambienti industriali: cerco di esprimere l’intensità di questi luoghi, che include colore, atmosfera, storia e sentimento. Uno scatto fotografico immortala un istante e rende un luogo immutabile nel tempo. Io cerco di esprimere esattamente il contrario: catturando alcuni momenti salienti dei processi industriali vorrei che le persone avessero la percezione che qualcosa prima o dopo il mio scatto è accaduto.
Come mai hai scelto proprio gli ambienti industriali come centro della tua ricerca artistica?
Sono legata a questo mondo poiché la mia famiglia possiede una trafileria, fondata negli anni ’60 da mio nonno, situata molto vicino a dove sono nata. Avendo visitato quei luoghi fin da bambina, è possibile dire che gli ambienti di partenza delle immagini mi erano, a tutti gli effetti e letteralmente, molto familiari.
“STEEL-LIFE” è la tua prima serie di fotografie realizzate in fine-art, protagoniste di un progetto ancora in corso. Com’è nata questa idea?
Una volta terminato il Corso di foto, video e new media in Accademia, avevo voglia di sperimentare ed esprimere appieno la mia visione. Così partii proprio da ciò che conoscevo meglio: l’industria, la trasformazione dei materiali e dei luoghi che la accolgono. Iniziai con degli scatti presso i luoghi produttivi della mia famiglia, per proseguire successivamente la mia ricerca in altri stabilimenti.
Il titolo gioca volutamente fra il significato letterale “vita dell’acciaio” e still-life, inteso come la tecnica fotografica che pone come soggetto un oggetto inanimato. Il trattino fra i termini spezza, e allo stesso tempo accomuna, i temi che ho voluto trattare all’interno del progetto, ovvero l’acciaio e, più genericamente, la vita.
Le immagini sono accomunate al genere still-life per quanto concerne il contenuto, ossia soggetti inanimati. Stilisticamente, invece, il progetto si allontana di molto da questo genere fotografico poiché le riprese non sono costruite e la luce è sempre naturale (o meglio, d’ambiente). Nonostante mi possa definire un’amante della fotografia in studio, in questo contesto non ho mai pensato di ricostruire scenari. Ho solo osservato ciò che mi succedeva attorno e mi sono lasciata travolgere dalle atmosfere.
La prima esposizione è stata presentata all’interno della Galleria Fumagalli di Milano con la curatela di Roberto Mutti. È un progetto al quale sono molto legata e che potrei definire “ancora in corso…”.
Come si può promuovere un giovane fotografo, al giorno d’oggi?
Ho cercato di propormi in vari contesti legati all’ambiente artistico e fotografico, partecipando ad esempio nel 2018 a “MIA Photo Fair” la fiera internazionale d’arte dedicata alla fotografia in Italia, all’interno della categoria “Proposta MIA”. Una volta accettata la mia candidatura, ebbi la possibilità di avere un mio spazio espositivo e questo mi ha permesso di far crescere la mia base di contatti attivi nel settore. Partecipo spesso a bandi e concorsi.
Grazie alle varie esposizioni ho potuto allargare i miei orizzonti su scala internazionale, esponendo all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi (all’interno di collettiva sempre curata da Roberto Mutti) e a Singapore, con una serie fotografica commissionata dalla Fondazione Dino Zoli e dalla DZ Engineering, che in quell’occasione si occupava della parte illuminotecnica del Gran Premio di Formula 1 di Singapore.
Hai ricevuto dei riconoscimenti per i tuoi lavori?
Nel 2018 ho vinto il Premio RaM Sarteano, promosso da MIA Photo Fair, l’anno successivo il Premio “AIF 2019 – Nuova Fotografia”, attribuito da AIF (Associazione Italiana Foto & Digital Imaging) ad un talento della fotografia emergente italiana. Ho partecipato alle edizioni 2018 e 2021 del premio Arteam Cup e nel 2021 sono stata tra i finalisti del “Premio Arte Laguna”.
Qual è l’artista che ha maggiormente influenzato la tua arte?
Fra gli innumerevoli artisti che mi hanno ispirata con ogni mezzo espressivo, come icona stilistica e affinità di approccio all’atto di creazione, indicherei Stanley Kubrick, poiché ritengo che la sua ossessione per la perfezione gli abbia permesso di raggiungerla. Fra i miti della fotografia che mi sono d’ispirazione potrei nominare Thomas Struth e Andreas Gursky, mentre fra gli autori che ho avuto la fortuna di conoscere, Luciano Romano e Pino Musi.
Dovendo scegliere una sola opera, invece, ne indicherei una appartenente alla trilogia “Stati d’animo. Gli addii. Quelli che vanno. Quelli che restano” realizzato nel 1911 da Umberto Boccioni poiché, all’apice del futurismo, rappresenta per me il vero significato del legame fra arte ed industria: racchiudere nella frenesia industriale un commovente sentimento.
A cosa stai lavorando oggi?
In questo momento mi trovo in Svizzera per amore e lavoro, mi sto dedicando assiduamente alla realizzazione della mia prossima mostra personale che verrà presentata in autunno. Per ora siamo solo alle prove generali, a settembre… “si va in scena”!