COMINCIAMO DALL’ITALIANO: LO PARLI BENISSIMO!
Grazie, ma ho iniziato a studiarlo tempo fa in effetti. Quando ho frequentato il Conservatorio di Vienna, ho avuto modo di seguire qualche corso.
Non si trattava di un livello avanzato né di lezioni intensive, però qualcosa ho appreso. A 13 anni ho studiato il francese, a scuola, quindi poi buttarmi a parlare l’italiano non è stato troppo complicato. Hanno suoni e grafie simili, per me, oltre a condividere l’alfabeto, e non ho incontrato troppe difficoltà.
PARLACI DELLE TUE ORIGINI…
Sono nata a Kermān, una città importante della zona centrale dell’Irān, dove ho vissuto per 17 anni fino a che ho lasciato il mio Paese. È lì che è iniziata anche la mia relazione con la musica.
INTENDI CON LA MUSICA PERSIANA O CON QUELLA OCCIDENTALE?
Entrambe, a dire il vero. Mio papà era un cantante non professionista di musica tradizionale, mentre io ho studiato violino per sette anni.
E poi anche io cantavo. Folk e jazz, soprattutto, e avevo anche una band! Esiste tuttora e adesso è anche molto conosciuta – si chiama “The Wantons”. Ero la vocalist principale ed è stata un’esperienza importante che ha reso intenso un buon periodo della mia vita.
Però, sai com’è la condizione delle donne in Irān. Sei lì, tu, a cantare, ma nessuno sa che sei veramente tu, le donne sono sempre accantonate. Come artista sentivo che avrei trovato di più, questo non mi bastava.
Sì, esatto. Ho incontrato il mio primo maestro di questo genere, il baritono iraniano Ardalan Jabbari, che mi ha impostata e mi ha insegnato tutto. È stato il primo a intravedere, per me, una possibilità di carriera, mentre io forse ancora non avevo realizzato che questa sarebbe stata la mia vita. Dopo qualche tempo, ho lasciato l’Irān per l’Austria – su suo consiglio – e, a Vienna, ho avuto modo di assistere a La bohème alla Staatsoper; ecco, quello fu il momento del colpo di fulmine, l’attimo in cui pensai che dovevo diventare una brava cantante lirica.
Così sono rimasta in Austria per perfezionarmi, prima quattro anni a Vienna e poi tre a Salisburgo, al Mozarteum.
È stato molto impegnativo, anche e soprattutto economicamente, perché allora le borse di studio erano normalmente messe a disposizione solo per gli allievi austriaci o comunque europei, quindi non alla mia portata. Né c’era da sperare in aiuti da parte del mio Paese, anzi! Era cambiato il Presidente e per gli immigrati iniziavano a esserci sanzioni e io ero all’estero per imparare la musica occidentale…
Per fortuna ho sempre avuto dalla mia parte tutta la mia famiglia. Nella famiglia di mio papà sono tutti ingegneri e in quella di mia mamma sono tutti medici; io dunque sono un po’ “la pecora nera”, però hanno visto e capito che il canto era la mia vera passione e mi hanno sostenuto tutti, papà in primis che mi ha aiutato davvero con ogni mezzo.
COME HAI SCOPERTO L’ACCADEMIA?
Il mio maestro mi ha spinto molto presto a partecipare a concorsi e masterclass, anche se non ero matura. Mi diceva che non era importante solo essere pronta, ma anche incontrare e conoscere altri cantanti, confrontarmi con quanti più artisti fosse possibile, capire quale poteva essere la mia direzione. Le competizioni diventavano momento formativo; così ho preso parte a svariate audizioni e Opera Studio, sin dall’età di 18 anni, e ho conosciuto davvero molti giovani cantanti, ma notavo ogni volta che quanti avevano studiato all’Accademia Teatro alla Scala erano sempre diversi dagli altri, si distinguevano per un qualcosa in più.
Non saprei definirlo in modo più preciso, ma si notava – io lo notavo, sempre, così mi sono ritrovata ad accarezzare spesso il sogno di poter anche io, un giorno, perfezionarmi in Accademia. Navigavo nel sito web della scuola scaligera e sognavo! E quando ho potuto, mi sono iscritta alle audizioni, così, per sognare ancora di più.
UN SOGNO CHE È DIVENTATO REALTÀ’ E CHE TI HA PORTATA AL PIERMARINI
Quando ho visto che ero stata ammessa alla finale non potevo credere ai miei occhi!
Ero emozionata, confusa, euforica e quasi mi andava bene così, mi sembrava di aver fatto tanto ed ero pronta a tornare a Vienna. Ma poi hanno iniziato a dirmi che ero la prima iraniana ad arrivare sino in finale e allora mi sono detta che dovevo proprio essere ammessa, non c’erano più alternative.
Con tutti questi sentimenti ho affrontato la prova finale; ho portato il mio cavallo di battaglia, l’aria di Lucrezia del primo Atto dei Due Foscari – un “coup de cœur” fin dal concorso “Voci verdiane” – e poi “Morrò, ma prima in grazia” da Un ballo in maschera e un’aria da Die tote Stadt, che avevo inserito nel repertorio in lingua diversa dall’italiano.
La signora D’Intino, poi, mi ha chiesto anche un’aria da I lombardi alla prima crociata, che avevo inserito come programma in fase di iscrizione al concorso; intimamente mi sono sentita davvero felice per questa richiesta, perché ho subito pensato che fosse l’ideale per mettere in risalto la mia voce.
È stata un’esperienza intensa, unica; pensavo in continuazione che su quel palcoscenico hanno cantato proprio tutti quei nomi che hanno fatto l’opera, una sensazione indescrivibile e di nuovo mi sono sentita fortunata già ad essere arrivata lì, però a quel punto volevo tutto.
RACCONTACI COME AFFRONTI LO STUDIO CON LA SIGNORA D’INTINO
Studiare con lei è un grande onore, perché è una delle cantanti migliori del mondo, tecnicamente e vocalmente, così brava che da un lato è stato un vero peccato che abbia lasciato le scene così presto: c’era tutto un mondo di cose da imparare solo a guardarla. Ma così ce l’abbiamo tutta per noi!
Lavorare con lei è impegnativo, perché pretende sempre di più, non c’è mai la fine. Questo aspetto, unito alla generosità del suo insegnamento e alla sua schiettezza, mi piace moltissimo, perché ci spinge a superare sempre i nostri limiti. Ci sono molti maestri che pensano che a lusingarti sempre ti possano indurre a fare meglio, ma invece serve onestà, soprattutto perché il mondo dello spettacolo, fuori dall’aula, è anche molto crudele. Non è una cosa facile, soprattutto da ascoltare, ma è estremamente necessario. La signora D’Intino è diretta, ma come dicevo prima anche molto generosa, una vera guida – non ti stronca lasciando aridità tutto intorno, ma dà la spinta giusta per migliorare.
Grazie a lei, poi, ho capito anche come funziona il sistema dell’opera lirica, come si giocano le relazioni nei teatri, per esempio; è un aspetto necessario e fondamentale per un cantante, tanto quanto il cantare bene.
CON LEI HAI PREPARATO ANCHE LA DIFFICILE ARIA “J’AI VERSE LE POISON” DI MASSENET, INSERITA NEL PROGRAMMA DEL CONCERTO “REGINE, SANTE E FEMMES FATALES”, UN EVENTO ORGANIZZATO IN STREAMING DURANTE IL LOCKDOWN…
Quando mi ha proposto quest’aria di Massenet per il concerto “Femmes Fatales” mi è sembrato che mi lanciasse un guanto di sfida, perché è normalmente affrontata dai mezzosoprani. Però ho subito amato quel sapore orientale evocato in Cléopatre, una melodia abbastanza inusuale nell’opera lirica, e, soprattutto, mi ha intrigato confrontarmi con la difficoltà scenica proposta da quest’aria così esotica. Per me è un pezzo che esige doti di artista, non solo di cantante; Cleopatra è un personaggio davvero particolare e molto complesso da interpretare. Ho accettato la sfida con un grande punto interrogativo nella mia testa, non sapevo se sarei stata in grado di fare bene…
“Femmes fatales” è stato davvero un evento strano, un concerto lanciato online durante il confinamento. Difficile, anche se sembra strano a dirsi, perché per noi è fondamentale la relazione con il pubblico. È proprio il contrario di quello che molti pensano: si crede che chi è sul palcoscenico voglia concentrarsi senza vedere nessuno, senza essere “disturbato” dalla gente, ma non è così. Vedere gli occhi degli spettatori, incrociare gli sguardi è fondamentale perché essere artista significa stabilire una relazione. E nei mesi scorsi, questa possibilità è venuta meno. Cantare dal vivo significa anche e soprattutto sentire dal vivo, se così possiamo dire, sentire la gente, ricevere l’energia che emana. Senza pubblico ci si sente un po’ meno artisti, lo spettacolo è un po’ meno sfavillante, il concerto è un po’ meno brillante, non c’è nulla da fare.
TECNICA VOCALE E INTERPRETAZIONE SCENICA: SU QUALE DELLE DUE CONCENTRI MAGGIORMENTE IL TUO STUDIO?
È una domanda difficile, dipende molto dai ruoli perché ce ne sono alcuni che chiedono naturalmente una tecnica vocale perfetta e, se non la possiedi, non hai appigli per portare a casa qualcosa di decente. Altri che, invece, a fronte di una parte più semplice impegnano maggiormente sotto il profilo scenico, pretendendo dagli interpreti una sensibilità, un’intuizione, una generosità maggiore. Queste doti permettono di giocare con il personaggio e mascherare qualche piccola imperfezione tecnica.
Servono davvero entrambi, per essere completi.
Ma in generale, se hai una tecnica perfetta e qualche carenza sotto il profilo scenico, puoi affrontare un repertorio più ampio, mentre se sei un bravissimo attore ma con una tecnica lacunosa, alla fine fai poco. Io mi concentro sempre di più su questo aspetto, il resto penso che venga da sé con il lavoro quotidiano e la guida di grandi artisti.
Sì, per me alla fine la tecnica è molto più importante; ho accettato la sfida dell’aria di Massenet anche per questo, per capire fino a dove potevo spingermi e quali sono oggi i miei limiti.
CHI TI HA ISPIRATO MAGGIORMENTE, NEL CORSO DELLA TUA FORMAZIONE?
Se parliamo sempre di opera lirica, avrei una lista infinita!
I primi nomi che mi vengono in mente sono ovviamente quello della grande Maria Callas, e poi Elena Obratzsova e Ghena Dimitrova. E poi Ferruccio Furlanetto, un fuoriclasse.
Ma anche nel mondo del pop ho i miei idoli: Beyoncé su tutti e poi il mito Michael Jackson!
IRAN, AUSTRIA, FRANCIA, ITALIA… COSA TI MANCA DELLA TUA TERRA, COSA HAI TROVATO QUI?
Ho vissuto in 4 Paesi, ma ne ho visitati 30 per un totale di una cinquantina di città: posso dire che Milano è un posto dall’atmosfera molto speciale. Ha un suo carattere, per così dire, e ci sto davvero bene!
Ma ovviamente l’Irān ha qualcosa che altrove non posso trovare: è scontato da dire ma mi manca soprattutto la mia famiglia, e poi l’ospitalità dei persiani. Per noi, l’ospite che entra in casa nostra è veramente sacro, in un modo direi antico, e lo si accoglie come mai ho visto nel resto del mondo. Mi manca davvero parecchio questo aspetto…
COSA CONSIGLIERESTI A QUANTI VORRANNO TENTARE IL PROSSIMO CONCORSO DI CANTO?
Di arrivare preparati, ma di essere soprattutto se stessi. Via le finzioni, via il voler scimmiottare qualcun altro. Bisogna dare il meglio di sé ma in modo naturale, con tutti gli angoli da smussare in vista. Se c’è talento, sarà l’Accademia a levigarli!