La Hall of Fame dell’Accademia si arricchisce di una nuova storia: questa settimana abbiamo avuto modo di scoprire un po’ di più su Fabrizio Mari, diplomato al Corso di sartoria teatrale nel 2022 e oggi in forze al Reparto Sartoria del Teatro alla Scala addetto alla vestizione.
Sarto di scena, sarto di laboratorio, addetto alla vestizione: Fabrizio, puoi chiarire questi termini per i non addetti ai lavori?
Il sarto di laboratorio prepara il costume e si occupa delle prime prove in camerino, fino all’Antepiano.
Il sarto di scena addetto alla vestizione, invece, segue un artista o un gruppo di artisti dall’Antepiano fino alla messa in scena e si occupa, come suggerisce il termine, di aiutarli a indossare i costumi. Questi sono spesso riproduzioni di abiti storici, con tutte le strutture nascoste e gli accessori del caso: è quindi indispensabile che qualcuno aiuti gli artisti a indossare gli abiti, tutt’altro che semplici da allacciare e sistemare, esattamente come avveniva in epoche antiche quando i nobili avevano cameriere e valletti personali.
Considerate poi che spesso può essere necessario nascondere nei costumi dei dispositivi come i microfoni: per esempio, per il Don Carlo dello scorso 7 dicembre io ero assegnato alla vestizione di Michele Pertusi, interprete di Filippo di Spagna, nella cui gorgiera erano inseriti due microfoni per la diretta tv. Ad ogni cambio costume dovevamo riposizionare anche quelli, cosa che il maestro, da solo, non avrebbe potuto fare.
Al momento io mi muovo un po’ in entrambi i ruoli, però devo dire che preferisco essere a contatto con gli artisti.
Oltre alle caratteristiche tecniche proprie di ogni tipologia di confezione, ci sono anche differenze di approccio mentale e di attitudine fra la sartoria civile e quella di spettacolo – o il metodo di lavoro è lo stesso?
Cambia un po’ l’atteggiamento verso la confezione, oltre alle tecniche, perché è completamente diverso l’uso. Il costume di scena deve adattarsi al corpo di più interpreti, deve essere più resistente di un abito civile – perché sarà usato continuativamente per più giorni in ogni sorta di contesto – e spesso ha bisogno di accorgimenti rapidi, soluzioni che siano efficaci ma anche veloci, quindi si usano molto il velcro, gli automatici, i ganci. L’abito civile invece, soprattutto se è importante e non un capo prête-a-porter, si usa una volta, poi si pulisce e si ripone nell’armadio fino all’utilizzo successivo. E non può avere questi “accrocchi” che permettono cambi veloci, ma deve naturalmente essere rifinito di tutto punto.
Facciamo un salto indietro: ti ricordi il primo incontro con l’Accademia? Come ci sei arrivato?
Provengo da una famiglia che mi ha sempre portato a spettacoli teatrali e non mi ha mai fatto mancare stimoli in questo senso, quindi l’inclinazione per il settore dello spettacolo è arrivata in modo del tutto naturale nella mia vita.
Per arrivare all’Accademia Teatro alla Scala, però, ricordo che ero ancora alle medie quando mi è capitato di vedere una pubblicità in metropolitana che mi ha affascinato; c’era una ragazza che teneva in mano delle assi e lo slogan recitava “Un giorno avrò tutto il palcoscenico”: parlava dei corsi scaligeri, è così che ho conosciuto questa scuola.
Poi in realtà mi sono formato all’Accademia di Belle Arti, ma le prime collaborazioni che mi sono state proposte dopo gli studi erano per costumista e prevedevano che sapessi fare trattamenti sartoriali che in realtà non sapevo affrontare. Fu una delle mie professoresse a propormi di provare le selezioni per il corso dell’Accademia Teatro alla Scala.
Mi sono iscritto quindi al test di ingresso. Era un buon momento, iniziava la pandemia e quindi cominciavano a scarseggiare le opportunità lavorative. Ero tranquillo, perché degli ex allievi mi avevano detto che la parte pratica consisteva in cose molto semplici, come attaccare un bottone. Una volta lì, però, ci è stato chiesto di realizzare una tasca a doppio filetto; non sapevo davvero come farla e temevo che questo mi avrebbe penalizzato, però alla fine sono stato preso – come tutte le altre persone che erano nel mio gruppo di selezione. Vengono infatti valutate molte cose, al di là delle abilità, come la propensione al lavoro di squadra per esempio e la manualità.
E così ha avuto inizio il mio percorso come allievo dell’Accademia.
Sai che il corso è in trasformazione e che, in autunno, prenderà il via la prima edizione del triennio in costume per lo spettacolo, un percorso riconosciuto dal MUR: un passo necessario, secondo te?
Se penso a me, per il mio percorso è stata perfetta la formula annuale – che poi in realtà si è un po’ dilungata, alla fine, per via della pandemia. Avevo infatti in essere alcune collaborazioni professionali, non ero già più uno studente fresco di studi, e avevo voglia di buttarmi a capofitto nel mondo del lavoro.
Ma credo che la trasformazione in triennio sia una bella sfida, che potrebbe rivelarsi fruttuosa. Se non avessi avuto alle spalle la formazione di belle arti, certamente mi avrebbe fatto comodo affrontare con maggiore calma diversi argomenti.
Quale lezione, appresa in Accademia, ti porti nel cuore?
Non riesco a individuare una sola cosa: diciamo che in generale l’incontro con Filippo Guggia, docente di tecnica di confezione del costume maschile, è stato illuminante. Sia perché si tratta di un professionista di altissimo livello, ricco di esperienza che ama condividere con generosità e con aneddoti spesso esilaranti, sia perché grazie a lui ho inquadrato quello che avrei voluto fare, l’ambito a cui votarmi.
Fabrizio, perché un giovane, nel 2024, dovrebbe scommettere su un settore di nicchia e su una professione artigianale?
Innanzitutto, perché il pubblico secondo me sta cambiando; la nuova campagna abbonamenti ha portato molti giovani fra i 20 e i 35 anni. E poi perché c’è forte richiesta di sarti specializzati, soprattutto nell’ambito della confezione maschile: il tasso di placement è davvero alto, quindi è una scommessa con un ottimo premio in palio.