Giulia Iacolutti – ex allieva del Corso di foto, video e new media – nasce a 1985 a Cattolica e oggi è al PAC di Milano con una mostra, curata da Giulia Zorzi, dedicata a uno dei suoi progetti più intensi, Casa Azul.
La raggiungiamo telefonicamente, mentre è alle prese con il calendario del 2022 che, fortunatamente, si sta già riempiendo di impegni e di progetti.
Come ti sei avvicinata al mondo della fotografia e dell’arte in genere?
Sono sempre stata attratta dalla fotografia. All’inizio fotografavo perché avevo paura di perdermi per strada dei momenti importanti della mia vita e, soprattutto, avevo esigenza di condividerli con le persone che non vivevano con me. Questo mi è accaduto, in particolare, quando, durante gli studi in Università, sono partita per l’Erasmus ed, essendo lontana, volevo condividere su Facebook con gli amici lontani quello che stavo vivendo.
Devo dire che ho sempre avuto una predisposizione per l’arte in generale. Per quindici anni ho studiato danza classica. Dopo la prima infanzia a Rimini, mi sono trasferita con la famiglia a Udine e, dopo il liceo scientifico, mi sono iscritta al Corso di Laurea in Economia dell’Arte a Venezia. Mentre frequentavo l’Università, sono stata a New York per uno stage. Avrei dovuto occuparmi dell’organizzazione di eventi per una stilista locale. Arrivata negli Stati Uniti, la stilista mi informa di non avere budget a sufficienza e così mi propongo come fotografa! Ho iniziato così, fotografando la sua collezione. Tornata in Italia, dopo la Laurea magistrale, sempre più consapevole del fatto che non avrei potuto diventare una consulente finanziaria per l’arte contemporanea, ho deciso di coniugare la passione per la danza con la fotografia e mi sono iscritta al Corso di fotografia dell’Accademia.
Correva l’anno?
Era il 2012.
Che cosa ti ha insegnato l’Accademia?
Mi ha costruito una forma mentis. Mi ha insegnato innanzi tutto l’invisibilità e l’umiltà. Uno dei primi insegnamenti che abbiamo ricevuto è stato quello di essere il più possibile invisibili, discreti, a cominciare dall’abbigliamento, rigorosamente nero. Chi fotografa uno spettacolo non deve essere visto e, soprattutto, non deve in alcun modo disturbare gli spettatori. Una lezione che continuo ad applicare anche nei miei progetti personali. Come, d’altro canto, la concentrazione e il fatto di scattare poco. È vero che oggi scatto in pellicola con un rullino da dieci scatti, ma l’Accademia mi ha insegnato a studiare prima di procedere con la fotografia. Ricordo ancora le lezioni del Maestro Sartorelli che ci ha insegnato a conoscere a fondo la trama dell’opera lirica da fotografare per poter poi essere in grado di fermare il gesto narrativamente più efficace e significativo. Studiare, analizzare il contesto. Ciò vale anche per i miei attuali progetti che coniugano linguaggi diversi.
La tua ricerca, infatti, è molto ampia. La fotografia è uno dei tanti tuoi linguaggi. Dopo aver concluso il percorso in Accademia che cosa è successo?
Devo dire che il legame con l’Accademia è stato molto forte, tanto che ho collaborato in diverse occasioni con la Scuola. Quindi ho sviluppato un interesse sempre maggiore per le tematiche sociali.
Ho iniziato a lavorare con Riccardo Vannuccini, regista teatrale molto impegnato sul tema dell’immigrazione e direttore artistico della Compagnia Artestudio. Vannuccini ha lavorato molto in Medio Oriente, in Siria nei campi profughi e io con lui ho seguito alcuni suoi spettacoli realizzati con gli ospiti del CARA (Centro di Accoglienza per richiedenti asilo) di Gradisca d’Isonzo. Siamo sempre rimasti in contatto.
Mi sono resa conto della necessità per me di spostare la fotografia di scena sempre di più verso aspetti di carattere politico e sociale, piuttosto che estetico e documentativo. Così ho fatto domanda per un servizio di volontariato internazionale a Città del Messico, dove stavano cercando un fotografo/videomaker con competenze anche nell’ambito di organizzazione di eventi culturali. Sono stata selezionata e sono partita nel mese di maggio 2014. In Messico mi sono occupata soprattutto di fotogiornalismo. Collaboravo con una rivista di “giornalismo narrativo”, cioè una di quelle riviste in cui un articolo viene commissionato a uno scrittore e corredato di un vero servizio fotografico, con un budget ben preciso che sostiene una certa qualità. Ho viaggiato molto con questa rivista, negli Stati Uniti, in Messico. Ma non mi bastava.
Ho sentito il bisogno di essere la voce dietro a quelle immagini, non semplicemente l’esecutrice di un lavoro fotografico. Quelle immagini dovevano diventare il mio strumento di narrazione. Ho così iniziato a collaborare con musei e gallerie per la realizzazione di progetti espositivi su temi di carattere sociale che coinvolgessero anche attivamente il pubblico. Per esempio, in Vivos, un lavoro sui desaparecidos (il Messico è tristemente noto per essere un paese molto pericoloso per coloro che denunciano sopraffazioni e corruzione), regalavo al pubblico le foto di queste persone scomparse, chiedendo poi di attaccarle sui muri delle città, fotografarle e postarle su Instagram con un hashtag particolare per creare un movimento pubblico intorno a questo tema.
Quindi sono andata oltre e ora cerco una co-autorialità nei miei progetti. Non è più il pubblico a interagire con l’opera, ma è il soggetto stesso dell’opera ad interagire. Ed è quello che accade nei miei “Laboratori di arte relazionale” che hanno come obiettivo finale un processo di integrazione ed inclusione sociale attraverso l’arte e la fotografia, dove la fotografia è sempre di più un mezzo, e viene “ri-significata e scomposta”.
Per esempio, recentemente ho lavorato con l’utenza psichiatrica sul collage e sul ritaglio. L’opera finale è loro. Io divento una sorta di guida. Sto lavorando ora sulla rigenerazione urbana dal punto di vista femminile e femminista; lavoro quindi con signore anziane con cui lavoro per rivivere insieme a loro il loro vissuto dell’abitare gli spazi urbani. Loro ricamano e parliamo. Io sono lì per instaurare un dialogo che sono loro a sviluppare.
Hai fatto esperienze forti e intense.
Sì, è vero. Si tende a cercare l’esotico, ad andare lontano, nei paesi del Terzo Mondo, perché si pensa che lì vi siano le emozioni forti. Sicuramente vi sono; lavorare con i desaparecidos o con donne transessuali rinchiuse in un carcere dà emozioni forti, ma se questo sguardo lo collochi nel tuo privato, nel tuo vissuto, ti accorgi che anche il vicino di casa è un’emozione forte. Per esempio, adesso io sto lavorando nella mia regione con persone che hanno delle disabilità, con problemi psichiatrici e i sentimenti sono altrettanto potenti. È un passaggio che si tende a fare con la fotografia: si va a fotografare l’esotico, cosa che va bene perché educhi uno sguardo, ma quando torni devi mantenere vivo quello sguardo ed accorgerti che l’esotico è in casa tua. L’esperienza forte non è per forza lontana da sé, è anche in se stessi, anche nella propria famiglia. È fondamentale essere empatici con quello che si ha intorno.
Ascoltandoti non posso che tornare all’inizio della nostra conversazione, quando mi parlavi dei tuoi primi approcci con la fotografia e della tua necessità di condividere. In fondo, la tua ricerca dà ancora spazio a questa tua necessità, poiché, grazie alla fotografia, togli queste storie all’indifferenza, poni il tuo sguardo su di esse, con il tuo punto di vista.
È vero. Un punto di vista che ritengo comunque sempre privilegiato. Io ho un mezzo che legittima e giustifica questo mio avvicinamento a un quotidiano a cui difficilmente ci si avvicinerebbe.
Questo quotidiano e queste persone come reagiscono a questo tuo sguardo?
L’Accademia, dicevi prima, ti ha insegnato a essere discreta. E l’empatia è sostanziale in alcuni casi. Come gestisci tutto questo?
Con rispetto, condivisione, tolleranza, ascolto e con grande orizzontalità. Nel mio lavoro, non sono io a dare qualcosa agli altri, ma sono gli altri che danno qualcosa a me perché mi insegnano che la vita si può affrontare secondo modelli che sono completamente diversi rispetto a quelli che sono stati i miei modelli di crescita e quelli che io applico nella mia vita. Ho fatto delle esperienze molto forti con persone con disabilità.
Pensa, ho lavorato con una ragazza che può muovere soltanto gli occhi e un dito. Lei vive in questo modo e mi ha insegnato che è possibile vivere così. Quando mi avvicino alle persone che saranno protagoniste dei miei progetti mi pongo sempre in modo “orizzontale”, in ascolto. Non porto mai la macchina fotografica ai primi incontri, perché prima bisogna costruire un rapporto basato su uno sguardo, su un sorriso. Contestualizzo. Ecco, una cosa che ho imparato in Messico e anche dai giornalisti.
Contestualizzare significa capire chi hai di fronte e comprendere quale possa essere la frase capace di abbattere le barriere. Mi ricordo, per esempio, quando ho lavorato con una giornalista che si occupava di donne migranti, nel momento in cui entravo con lei nelle case di queste persone, lei faceva subito degli apprezzamenti, notava con gentilezza delle cose, entrava subito in empatia e rompeva il ghiaccio, Con sincerità. Prima devi entrare in contatto con l’altro. Costruire una relazione. Poi c’è un racconto reciproco.
Parliamo della tua mostra, Casa Azul, fino al 13 febbraio al PAC di Milano.
Casa Azul è un progetto socio-visivo che racconta la storia di vita di cinque donne transessuali rinchiuse in un carcere maschile di Città del Messico.
Il titolo si riferisce al colore blu degli abiti che queste persone sono costrette a indossare perché sono detenute in un carcere maschile. Se fossero in un carcere femminile vestirebbero di beige. Ironizzando sulla propria condizione queste donne mi dicevano di vivere nella Casa Azul anche metaforizzando la loro condizione di donne nate in un corpo maschile, usando i colori stereotipati di genere. Così è nata l’idea di chiamare il progetto Casa Azul, progetto che ho costruito con Cloé Constant, sociologa francese che vive a Città del Messico e che all’epoca stava facendo un dottorato sui processi di transizione. Da lì ho deciso di non pensare alla “definizione perfetta” che stavo cercando nelle mie fotografie di medio formato con un rullino a colori, ma di convertirle in cianotipia, utilizzare cioè un metodo di stampa antico che tramite l’emulsione delle carte con dei chimici ferrosi ed esposti al sole con il negativo, consente di realizzare delle immagini tutte virate al ciano.
Questa mostra accosta una quarantina di cianotipie a immagini di colore rosa che altro non sono che foto al microscopio di cellule prostatiche sane. Ciò per far emergere, attraverso i colori stereotipati di genere, il contrasto che esiste fra essere uomo in un carcere maschile, ma sentirsi interiormente una donna (da qui il colore rosa). Queste foto sono state realizzate in Inghilterra in un laboratorio di biologia.
I ricercatori avevano a disposizione questo microscopio che faceva foto di grande qualità. Quando trovavano le cellule sane, mi spedivano le fotografie. Sottolineo il fatto che la mia richiesta era che le cellule fossero sane, perché non volevo associare alla transizione il concetto di malattia. Studiando e confrontandomi con i biologi, ho scoperto che quando loro cercano nelle cellule una malattia, iniettano un liquido di contrasto rosa e da lì mi è venuta l’idea di accostare queste immagini a quelle delle donne di Casa Azul.
Ho voluto proprio creare un parallelismo con le scienze biologiche. Le donne di Casa Azul all’esterno sono blu, ma dentro sono rosa. E all’interno di queste foto ho cercato dei ritagli evocativi. Fra questi un’immagine in cui queste cellule sembrano un feto, tema di cui ho discusso a lungo con le protagoniste del progetto.
Il senso vero del progetto non è solo dare voce a cinque esperienze di vita, quanto piuttosto cercare di generare una riflessione da parte del pubblico su quale sia in realtà il vero carcere. Per esempio, una di loro, Frida, diceva che si sentiva molto più libera in carcere che nella società. Qual è, dunque, il vero carcere? È il carcere inteso come istituzione oppure è il corpo in cui nasciamo o, ancora, la società che discriminandoci, non fa che limitare la nostra libertà d’espressione?
Ma ne hai conosciuto a fondo le storie? Che reati avevano commesso, per esempio?
Io le ho incontrate complessivamente dieci volte, cinque delle quali con la macchina fotografica. Incontri di un paio d’ore, due volte a settimana. Loro sono state molto generose con me e si sono molto aperte. Considera che parliamo di persone che avevano commesso reati gravi, per i quali dovevano scontare pene pesanti, intorno ai vent’anni. America (una delle donne) è stata riconosciuta innocente ed è uscita dopo aver trascorso più di dieci anni di carcere. Il progetto Casa Azul è anche un libro e nel volume sono contenute tutte le interviste che ho fatto loro, interviste divise in tre paragrafi: “prima del carcere”, “il delitto” e “il carcere”, tranne quella di America che ne contempla anche un quarto, “la liberazione”. Io non giudico quello che hanno fatto.
Mi interessava la loro storia come persone, come esseri umani.
Mi interessava capire la loro forza nel voler lottare per un’identità in un ambiente così ostile come quello del carcere, un luogo in cui la sopravvivenza passa attraverso un’espressione di virilità. Invece loro, mettendosi ogni giorno il rimmel, facendosi la barba, pettinandosi, continuano a ribadire un sentire che non è più supportato dalla terapia ormonale che facevano prima del carcere. Sono tutte pratiche di resistenza identitaria ed è questo quello che mi interessava e stimavo, perché in quel momento io stessa mi interrogavo sulla mia identità in quanto donna bianca, privilegiata, che viveva in Messico per fare reportage. Mettevo in discussione le mie radici. Loro mi davano un grande esempio.
Con alcune immagini sei entrata nella Collezione Donata Pizzi, che raccoglie grandi nomi della fotografia femminile italiana. Che cosa ha significato per te?
Per me è stata una grande soddisfazione. È un grande onore essere stata inserita in questa collezione soprattutto perché raccoglie opere di autrici molto impegnate politicamente e socialmente. Parliamo di maestre della fotografia. Donata Pizzi è l’espressione stessa di questo impegno in quanto investe su donne fotografe, donne che spesso sono assenti dal mercato dell’arte. Sono felice che abbia creduto nel mio lavoro e soprattutto mi piace pensare che questa collezione consegni alla storia la fotografia al femminile.
Parliamo dei tuoi prossimi progetti.
Sto lavorando a un progetto dedicato agli ormoni del piacere, un progetto che da fotografico sta diventando più performativo con persone ammalate di Parkinson o che hanno disabilità fisiche. Al PAC abbiamo fatto una performance l’11 dicembre scorso in occasione della Giornata del contemporaneo (Dopamina. Studio visivo sugli ormoni dell’amore – guarda il video) e adesso la rifaremo in Friuli. Sono molto contenta di avere l’opportunità di ripeterla perché al PAC non avevano potuto partecipare tutti i protagonisti del progetto, in quanto provengono proprio dal Friuli. Questo è ciò che mi piace del mio lavoro: poter creare delle esperienze. Ho la fortuna di poter viaggiare e fare incontri in ambito artistico e museale e l’idea di condividere questo con persone che magari hanno difficoltà ad uscire di casa è parte stessa dell’opera e parte integrante del mio impegno.
Credo che veramente per me sia importante eliminare quel confine tra arte e vita attraverso la condivisione di esperienze che mettano in discussione i comportamenti normativi. Da qui la necessità di praticare un’arte partecipativa che funziona solo nel momento in cui io per prima mi metto in relazione con l’altro e l’altra.
Poi c’è un progetto editoriale dedicato al calcio. Dovremmo ormai essere in dirittura d’arrivo. La pubblicazione per me rappresenta un momento molto importante perché significa che il lavoro è arrivato a una sua conclusione.
Continuo inoltre a insegnare a raccontare attraverso le immagini, una delle cose che amo di più. Anche in questo caso il rapporto è sempre orizzontale perché si tratta di condividere esperienze e normalizzarle, perché ciò è possibile. Basta solo un po’ di determinazione, impegno e di sincerità.
Torniamo alla danza, al tuo amore e alla tua passione per quest’arte. Che cosa significa per te fotografare la danza?
Una cosa che ripeto sempre è la prima frase che ha pronunciato Maurizio Buscarino durante la sua prima lezione: “La scena è come la vita. Nasciamo dal buio, dal ventre di nostra madre, arriviamo alla luce, si accendono i riflettori, viviamo su un palco e poi ricadiamo nel buio con la morte”. Per me questa frase è sempre stato un altro grande insegnamento che ho ricevuto in Accademia. Quando fotografo uno spettacolo cerco di pensare sempre che sto fotografando la vita. La danza è l’espressione massima del corpo e dell’essere. La mia bimba di 15 mesi si esprime attraverso la danza, il movimento. Per me la danza è proprio espressione di vita ed è l’espressione artistica che mi fa piangere, che mi commuove.
Quanto è difficile assistere a uno spettacolo come spettatrice e non poterlo fotografare? Ti succede di voler tornare a fotografare uno spettacolo dopo averlo visto?
Sicuramente sono due forme di fruizione diversa. Attraverso il mezzo fotografico non piango perché c’è questa macchina che mi fa da filtro e la fruizione è più concentrata, più tecnica. Senza la macchina la fruizione è più emotiva. Certo, quando hai la fortuna di vedere le prove e poi la sera stessa puoi assistere allo spettacolo, puoi comprenderlo nella sua totalità. A volte effettivamente capita di voler fotografare ciò a cui hai assistito come spettatore! Devo dire che mi manca l’odore del teatro.
Il balletto comunque mi commuove sempre, perché è ancestrale. Per esempio, in Messico attraverso il ballo, loro comunicano, vivono, passano il tempo libero, a tutte le età. Si ritrovano in un salotto e ballano, dal ragazzino di 15 anni al signore più anziano. Qui in Italia forse non accade più, una volta avveniva nei paesi, nelle sagre, c’è un pudore a sentirsi liberi, perché attraverso il ballo ti liberi.
La tua spiritualità è molto forte. Quanto ha influito su di te la permanenza in America Latina, dove si respira una grande spiritualità? Penso, per esempio, al rapporto così speciale che il popolo messicano ha verso i propri defunti.
Quando sono partita per il Messico, dopo aver trascorso un periodo in Mali, i miei genitori mi hanno chiesto che cosa mai cercassi in quelle terre. Ho risposto loro che cercavo semplicemente dei modelli diversi dai nostri, ma non perché volessi rifiutarli, ma perché volevo conoscerne altri. All’epoca pensavo che se un giorno avessi avuto un figlio avrei tanto voluto insegnargli che si può vivere anche in altri modi. Tutte queste esperienze le ho fatte anche per abbattere dei tabù, la libertà del corpo, la libertà di accettare la morte come parte integrante della vita. Un tema che prima non avevo affrontato. O meglio, a dirti il vero, quando ero ancora a Milano avevo in mente un progetto che si chiamava “La morte ti fa bella”. Volevo realizzare delle fotografie dei defunti all’interno delle camere ardenti, ma non me lo hanno mai permesso! Ad ogni modo, alla fine credo che tutto riconduca sempre all’ascolto dell’altro, all’accettazione della diversità, da intendersi come ricchezza, varietà.
Quale consiglio puoi dare oggi ai ragazzi che vogliono fare la tua stessa professione?
Innanzitutto quello di essere curiosi. Quando frequentavo l’Accademia, non mi perdevo una mostra, una conferenza, prendevo appunti… in una ricerca continua che andava al di là di quello che mi veniva insegnato …. consiglio di rendere questa pratica il proprio pane quotidiano. E poi essere umili. Temo che questa dote si sia un po’ persa. Siamo delle persone che usano l’immagine per comunicare, un mezzo che è paritetico a tutte le altre attitudini, agli altri mezzi d’espressione. L’orizzontalità, l’ascolto, l’empatia sono punti di forza. Perché una foto pecca di non sincerità se non è vissuta a livello umano ed empatico. A me questo facilita nel lavoro.
La tecnica è fondamentale, ma se non è corredata dalla capacità di andare oltre, quella tecnica rimane fredda. Prima dicevi che la danza ti fa commuovere e mi piace che tu abbia usato questo termine. Commuovere significa proprio mettere in movimento ed è curioso che le tue immagini, capaci di fermare per sempre il movimento, siano in realtà capaci di mettere in moto emozioni molto intense.
Ti ringrazio di questo. Giulia Zorzi, curatrice della mostra al PAC, nel corso di una conferenza dal titolo “Fotografia e attivismo” ha affermato che nelle mie foto lei vede la danza. Credo che questo movimento lo si possa individuare nella mia ricerca del gesto, che va al di là del momento fermato, trovando così un fil rouge fra balletto, fotografia di scena e quello che sto facendo adesso.
Foto:
Casa Azul, Città del Messico, 2017-2018 © Giulia Iacolutti
Dopamina, Palermo, 2020 © Giulia Iacolutti
Video:
“Dopamina. Uno studio visivo sugli ormoni dell’amore”. Performance sulla gestualità dell’affetto di Giulia Iacolutti
11 dicembre 2021, PAC Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano
In occasione della 17 ^ Giornata del Contemporaneo promossa da AMACI Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiana