Elena Caccamo, mezzosoprano milanese di soli ventotto anni, è la protagonista della Hall of Fame di quest’oggi, che vi racconta ancora qualcosa di uno dei corsi dedicati agli allievi più giovani: il Biennio propedeutico al Coro di voci bianche.
Elena, torniamo indietro di vent’anni: come sei arrivata nelle fila del Coro di voci bianche dell’Accademia Teatro alla Scala?
È nato tutto per caso. Inizio col dirti che non sono figlia d’arte; semplicemente, da che io ricordi ho sempre amato cantare. Ovviamente parlo di musica leggera, le hit del momento e le canzoni ascoltate dai miei genitori – Baglioni, Ranieri, Mina… Era comunque qualcosa che mi piaceva fare in ogni momento, fingevo il karaoke e nella mia cameretta cantavo tutto il tempo. Se ci ripenso, a volte anche durante l’intervallo a scuola, alle elementari, mi mettevo a cantare per i fatti miei.
Quando ho avuto circa otto anni, sull’inserto Vivi Milano del Corriere della Sera è stato pubblicato un annuncio che parlava di selezioni per un coro – era quello del Comune di Milano. I miei genitori decisero di farmi partecipare, vista questa mia inclinazione. Alla mia prima audizione ho cantato “Perdere l’amore”, nulla a che vedere con l’opera lirica che non conoscevo molto.
Dal coro del Comune sono stata poi dirottata in Conservatorio: all’epoca l’Accademia, nella sua forma attuale, non esisteva.
Ricordo che arrivò subito un plico di documenti, da far firmare ai miei genitori per poter partecipare subito a una produzione, una Turandot. I miei mi dissero di riconsegnarlo, che doveva esserci stato un errore: non avevano capito di avermi iscritto al Coro di voci bianche della Scala. Per via di questo contrattempo persi quella prima opera, ma fu l’unica. Da lì in poi non mancai più a nulla.
E quindi, poi, la prima produzione a cui hai effettivamente partecipato quale fu?
Carmen agli Arcimboldi, nel 2004, con un numero spropositato di recite, molti cambi dei costumi firmati da Franca Squarciapino e le scene di Frigerio. Ricordo tutto: l’atmosfera, la magia del momento, l’emozione, la mia prima volta nei Laboratori Ansaldo, ma anche cose molto concrete come il fatto di venire spesso ripresa, perché parlavo in continuazione dietro le quinte fra il Primo e il Quarto Atto. Dopotutto ero ancora piccola. A quel punto avevo frequentato il primo anno di corso, ma ancora non sapevo leggere la musica.
Quindi non erano previste lezioni di solfeggio come adesso?
No, era un po’ diverso da come è impostato ora, sono del resto passati vent’anni. Prima lavoravamo con il maestro Cajani direttamente sulle opere. Avevamo quindi speso buona parte dell’anno a studiare il coro del Primo Atto di Carmen. Eravamo gli allievi del corso propedeutico, che non è quello chiamato a sostenere le produzioni, ma evidentemente si erano trovati nella necessità di rimpolpare le fila, così il maestro chiese di imparare al volo anche il secondo coro, da un giorno all’altro. Era una sorta di sfida, una selezione naturale.
I miei genitori acquistarono un cd e io l’ho imparato ascoltandolo e guardando il libretto, perché appunto continuavo a non saper leggere la musica. Ero una bambina diligente: avevano dato un compito e io volevo impegnarmi. E venne fuori, alla data prevista, che solamente io e un’altra bambina eravamo riuscite a memorizzare tutto. Fu una scoperta reciproca: lo staff dell’Accademia vide così in me qualcosa, un piccolo talento, e anche io capii di avere della stoffa. L’anno successivo mi sono ritrovata direttamente nel Coro, non più al biennio propedeutico, e ho iniziato di fatto a fare anche la solista.
Continuavo comunque a essere una bambina, quindi vivevo questi accadimenti in modo molto semplice, senza rendermi bene conto di come si stava pian piano modificando la mia vita.
Come hai vissuto il passaggio dal repertorio leggero a quello lirico?
Non so come spiegare, ma per me era un genere come un altro. Lo cantavo perché mi veniva proposto quello e mi piaceva – più che altro i recitativi, mentre da piccola mi annoiavo un po’ con le arie – ma a quell’epoca poteva essere qualsiasi cosa, non mi importava. Non è stata una rivelazione o una scelta e non ho subito lo shock del palcoscenico, perché vivevo le cose in modo naturale e disincantato: il pensiero critico sul genere è venuto chiaramente molto dopo.
Ora come ora preferisci la dimensione del concerto o della produzione lirica?
Assolutamente la dimensione teatrale, adesso so che è sempre stata la mia vocazione. Se la scena non ci fosse, probabilmente non canterei proprio, del resto è stato ciò che ho vissuto al corso propedeutico a determinare le mie scelte.
Ma non chiedermi cosa farei: ci ho pensato spesso ma non ho risolto. Da piccola mi attirava l’idea di diventare archeologa e le opzioni finiscono lì.
Ho studiato strumento, ma sempre un po’ finalizzato a essere una cantante migliore, e ho frequentato l’Università solamente per un mese. La mia strada era quella che avevo intrapreso, quella che mi lega al teatro musicale. Mia mamma racconta che una sera, tornando dagli Arcimboldi, le ho detto che se avessi potuto fare quello tutto il giorno, tutti i giorni, allora sarei stata sempre felice.
In che senso hai studiato strumento solo per essere una cantante migliore?
Il maestro Casoni, un po’ parafrasando, disse a mia mamma che io ero utile ma era preferibile che fossi una musicista migliore. Se ne parlò a lungo e infine mia mamma chiese in Conservatorio quali classi di strumento accettavano candidati senza preparazione. Potevo iscrivermi solo ad arpa o a viola e in maniera molto pratica mia mamma concluse che l’arpa fosse troppo grande e dispendiosa: avrei studiato viola per completare la mia formazione musicale.
Per molti anni ti sei formata con i tre maestri di riferimento delle voci bianche scaligere, Alfonso Cajani, Marco De Gaspari e Bruno Casoni. Che ricordo hai di loro?
Sono davvero tre pilastri, persone che ci hanno accompagnato per molti anni, praticamente dieci, e attraversando con noi un momento molto delicato, quello dell’adolescenza.
Il maestro Cajani è rigoroso, severo, incuteva molto timore anche se nascondeva un cuore dolce. Mi ha insegnato soprattutto la disciplina mentale.
Il maestro Casoni è quasi una divinità, come se fosse su un piano diverso da quello di tutti gli altri.
Con Marco De Gaspari ho speso moltissimo tempo; lavora parecchio dietro le quinte, soprattutto prima della nascita del corso propedeutico strutturato come ora. È stato anche il mio primo docente di solfeggio, perché Casoni – nel tentativo di mettere una pezza alle nostre mancanze musicali – ci faceva arrivare a lezione mezz’ora prima appunto per imparare a leggere la musica con Marco. Gli devo molto della mia crescita ed è un punto di riferimento costante; anche adesso, tengo molto al suo parere. Quando ho bisogno, in campo musicale, del giudizio schietto di qualcuno mi rivolgo a lui: dice quello che pensa e sa chi sono, perché sono cresciuta con lui. Non c’è bisogno di molte parole fra noi.
Hai trascorso molti anni sia in Conservatorio sia in Accademia; quale luogo ti è più caro?
Rappresentano due tipi di affetto molto diversi; ho speso un’infinità di tempo in entrambi i posti e il conservatorio è un luogo familiare, fra l’altro è quello da cui sono partita. Ho preso un diploma in canto, oltre ad aver studiato viola. Ma l’Accademia e il Teatro sono davvero casa mia. Ho iniziato a frequentare il teatro quando ancora non c’erano i tornelli a disciplinare l’entrata: andavo e venivo, ci passavo interi pomeriggi. Anche in Accademia, magari andavo un’ora prima e mi mettevo sulla scala a fare i compiti in attesa delle lezioni. Era normale, era il posto dove fosse più naturale essere. Durante le vacanze estive molti musicisti si ritrovavano in Conservatorio, sai magari a studiare insieme o solo per stare insieme: io andavo in Accademia. E allo stesso modo, se mia mamma voleva sgridarmi mi minacciava di togliermi le lezioni di coro, ma non mi ha mai detto che non mi avrebbe mandata in Conservatorio, non avrebbe sortito lo stesso effetto. È buffo, perché in una certa misura la mia famiglia era legata all’Accademia prima ancora che questa nascesse come tale: un mio prozio, un vero melomane, era amico della signora Gencer e io presi a partecipare ai Galà dei Cantanti Solisti fin da piccola, prima di far parte del Coro di voci bianche.
In questi anni hai lavorato con tutti i nomi più importanti della scena mondiale; di quali direttori serbi il ricordo più particolare?
Ho nel cuore Zubin Mehta, verso il quale ho molta riconoscenza. Innanzitutto, la produzione di quel Tannhäuser (2010), è stata importantissima e mi ha insegnato molto, a livello artistico, musicale e organizzativo, ma poi è successo che qualche mese dopo ho ricevuto la chiamata per un altro progetto, sempre col maestro Mehta, per il quale lui aveva chiesto espressamente di me. Si trattava del Rigoletto nei luoghi dell’opera, a cui poi non ho potuto partecipare in quanto ancora minorenne.
Ho una nota, nel mio telefono, dove registro i complimenti e le menzioni ricevute e il primo punto della lista è proprio dedicato alla chiamata del maestro Mehta.
Poi vorrei citare anche Gustavo Dudamel, che ha diretto il mio primo concerto da solista. Era molto giovane, all’epoca, ma riuscì a mettermi a mio agio e a gestire il tutto con tranquillità: avevo tredici anni e di fatto nessuno sapeva come avrei reagito all’apertura del sipario, ero pur sempre un’adolescente.
E se parliamo invece di produzioni?
Ho sicuramente molto amato A Midsummer Night’s Dream (2009) di Britten, un progetto corposo che dava parecchi grattacapi al maestro Cajani e che ho capito appieno solo a posteriori. La regia, affascinante, era di Carsen. Ugualmente mi sono sentita totalmente appagata da 1984.
Sono poi legata al Flauto magico di William Kentridge (2011), un po’ per la regia in sé ma più francamente per via del ruolo che ricoprivo, che credo mi avrebbe fatto apprezzare qualsiasi allestimento.
E ancora, la Bohème di Zeffirelli; quale bambino non la ama? Vi racconto un aneddoto “proibito”: noi piccoli delle voci bianche ci nascondevamo dietro al Café Momus, dove venivano portati piatti reali preparati da un noto ristorante, e rubavamo di nascosto quel cibo delizioso.
Faccio fatica, con la memoria, a scindere quelle produzioni in cui effettivamente ero parte attiva e quelle in cui mi sono sentita io parte attiva solamente perché uno spettacolo teatrale è un lavoro di gruppo: il coro di voci bianche ha parti piccole, eppure il coinvolgimento è tale che sembra di aver fatto tutto.
Diamo un consiglio ai genitori che ci leggono: perché dovrebbero scegliere l’Accademia?
Esistono tanti metodi e scuole validissime, Milano ne è piena; ma solo il corso dell’Accademia Teatro alla Scala permette di vivere il palcoscenico. Se un bambino, oltre alle doti vocali, dimostra anche amore o attitudine per la recitazione, questo è il posto migliore dove possa imparare e soprattutto fare esperienza pratica ad altissimo livello fin da piccolissimo.
Elena, quali progetti hai per il futuro?
Ve lo dico in anteprima: vorrei dedicarmi al repertorio contemporaneo.
Ho avuto un buon percorso lavorativo e anche durante la pandemia non sono stata ferma, per fortuna, ma ho rimesso in discussione varie cose. Quest’estate, proprio con gli altri complessi artistici dell’Accademia, sono stata nel cast del Jacob Lenz di Wolfgang Rihm, al Festival Puccini di Torre del Lago, e ho riscoperto l’amore per questo repertorio che ci veniva proposto anche da piccoli e da cui mi ero un po’ allontanata nel seguire il naturale svolgersi della mia carriera. Non è un repertorio molto presente in Italia e non intendo certo abbandonare il resto, ma ho in animo di specializzarmi in questo campo.
Foto header: Elena Caccamo come Cherubino, Le nozze di Figaro
In articolo, un ritratto di Elena Caccamo e il mezzosoprano nei panni della suora zelatrice, Suon Angelica e di Rosina, Il barbiere di Siviglia