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Va in scena Anna A.

26 Settembre 2025

Allieve e allievi dell'Accademia in prima assoluta

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Dal 28 settembre al 2 dicembre va in scena in prima assoluta Anna A., la nuova opera commissionata dal Teatro alla Scala alla compositrice Silvia Colasanti su libretto dello scrittore e traduttore Paolo Nori, con la direzione di Anna Skryleva (nelle recite anche Bruno Nicoli e Paolo Spadaro) e la regia di Giulia Giammona con scene di Lisa Behensky e costumi di Giada Masi.

L’opera, inserita nella programmazione per il pubblico più giovane ma destinata a un pubblico universale, sarà eseguita da Solisti, Orchestra e Coro giovanile dell’Accademia.

Colasanti e Nori hanno concepito un lungo flashback in cui confluiscono parti recitate e cantate. La Achmatova ormai prossima alla fine è interpretata dall’attrice Elena Ghiaurov, mentre nei panni di Anna giovane si alternano Laura Lolita Perešivana e Etīna Emīlija Saulīte. Carlotta Viscovo è Lidija Cukovskaja, l’amica di Anna. Aleksandrina Mihaylova e Naslican Karakaş sostengono le due parti di Nina Berberova e Marina Cvetaeva, Valentina Pluzhnikova quelle di Zinaida Gippius e Nadežda Mandel’štam, Geunhwa Lee quelle di Sergej Gorodeckij e Nikolaj Punin, Wonjun Jo e Akilbek Piyazov quelle di Nikolaj Gumilëv e Michail Bulgàkov, Haiyang Guo e Zizhao Chen sono Osip Mandel’štam, Damiano Salerno è la voce del Potere e il Coro giovanile dell’Accademia interpreta le madri.

 

Anna A. è dedicata alla figura della poetessa Anna Achmatova (1889 – 1966), tra le voci più alte della lingua russa.

Nata nei pressi di Odessa, in Ucraina, si distingue nei gruppi di poeti acmeisti in cui conosce il suo primo marito, Alexei Gumilëv, con cui ha un figlio, Lev, e da cui divorzia nel 1918. Gumilëv viene fucilato per cospirazione nel 1921. La censura si abbatte sulla produzione poetica di entrambi. Il secondo marito muore di tubercolosi; il terzo, Nikolaj Punin, viene arrestato più volte, come anche Lev. Lei riesce a farli liberare, ricorrendo anche all’aiuto di Pasternák, ma Punin viene nuovamente arrestato e muore in un campo nel 1953. La Achmatova riprende a scrivere nel 1940 e durante la guerra viene inviata in un rifugio sicuro in Uzbekistan insieme a un gruppo di intellettuali non del tutto organici ma che il regime voleva proteggere, tra cui Šostakovič. Nel 1946 viene espulsa dall’Unione degli scrittori sovietici che la considera “congelata sulle posizioni dell’estetica borghese-aristocratica”. Dal 1949 Lev è in un gulag e la Achmatova fa la coda con le altre madri e mogli davanti alle prigioni di Leningrado per avere notizie. 

Nel 1955 la riabilitano e poi liberano Lev; nel 1962 pubblica la sua opera più nota, Poema senza eroe.

 

L’opera della Colasanti, in cui si intrecciano canto e prosa, presenta la poetessa negli ultimi giorni della sua vita, all’ospedale di Domoedovo, confortata dall’amica Lidija Čukovskaja che negli anni della censura aveva memorizzato i suoi versi diventandone segreta custode. Dalla conversazione tra le due donne emergono i ricordi della vita di Anna, i lutti, le persecuzioni ma anche la forza della poesia.

Quando le mogli e madri degli scomparsi assiepate con lei davanti al carcere di Leningrado le chiedono se può raccontare quello che stanno vivendo, Anna risponde: “Posso”.

Silvia Colasanti spiega ad Andrea Estero nell’intervista contenuta nel numero di settembre della Rivista della Scala:

Nell’opera ci sono tre situazioni musicali distinte: il racconto quando è pieno di informazioni, notizie, l’ho affidato alle voci recitanti, su una musica evocativa dell’orchestra perché qui ci deve essere la massima chiarezza.

Poi c’è la narrazione vera e propria, intessuta sulle relazioni tra i personaggi, che ho risolto con una sorta di “canto di conversazione”, dove l’aspetto melodico è affidato all’orchestra: sarebbe ridicolo far cantare in modo fortemente lirico parole, espressioni della quotidianità. Il canto più pieno e spiegato arriva solo in corrispondenza dalla poesia (di Anna o di Mandel’štam) o da altri momenti della storia che hanno una speciale valenza espressiva ed emotiva.

Un buon libretto d’opera, in generale, deve avere poche parole che fissano subito un’immagine poetica, evocativa, che offra l’occasione di un’espansione lirica.


Foto Brescia Amisano © Teatro alla Scala

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